In un calcio giunto quasi alla fine degli Anni ’80 e che esigeva chissà per quale motivo, che le cosiddette bandiere non dovessero esistere più, Mimmo Caso rappresentava il punto di riferimento (insieme a Giuliano Fiorini) della tifoseria biancoceleste, sia in campo che fuori. Subito dopo la salvezza raggiunta con gli spareggi di Napoli, Caso aveva pensato anche al ritiro. Fu veramente così Mimmo? «Per qualche giorno la mia decisione era questa. Dopo aver concluso gli spareggi e dopo un’annata così sofferta e stressante, la tentazione di lasciare il calcio giocato era tanta. Ma poi prevalse l’amore per questi colori e per la maglia biancoceleste, così decisi di ricaricarmi e di ripartire per la seconda missione impossibile: quella di riportare la Lazio in Serie A, dopo la scampata retrocessione in terza serie». A proposito di maglia, Mimmo, cosa ricordi di quelle indossate nei tuoi tre anni alla Lazio? «A distanza di tanti anni ricordo che due furono gli elementi trainanti e determinanti per la rinascita di quella disastrata Lazio e per compattare tifoseria e squadra. In primis le storiche parole di mister Fascetti all’indomani della sentenza che ci aveva sbattuto in Serie C. Il buon Eugenio ci disse: “Chi vuole resti. Chi non se la sente può andar via subito. Ma chi resta combatte fino alla fine.” Nessuno di noi ebbe un attimo di indecisione. Rimanemmo tutti e tutti carichi più di prima. Il secondo elemento senza dubbio è stata la divisa con l’aquila sul petto, davvero bellissima. Quando la indossavamo, io ed i miei compagni avevamo la sensazione di avere un’armatura addosso, eravamo ancora più forti. Devo anche ammettere, che anche la tenuta gialla, quella da trasferta con l’aquila sul petto azzurra, aveva un suo fascino davvero particolare. Sono stato proprio felice quando nel 2015 la “maglia bandiera” è stata riproposta nuovamente dalla Macron, molto simile a quella da me indossata nel campionato 1986/87».
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