Chi era Felice Pulici, anzi chi è nei nostri ricordi il numero uno della mitica Lazio progenitrice di una stirpe di laziali eroici e romantici? È l’emblema della verità, del sorriso, della serietà, della “pietas” latina, intesa come “comprensione, amore e devozione per gli altri”. Lui, longobardo puro, aveva le stimmate del romano vero, di quel romano erede dei valori della tradizione e del diritto. Già, il suo diritto, l’amore infinito per le regole, la sistemazione razionale di una vita che forse non ha significato se non nei suoi dettagli più semplici e più puri. Il suo “diritto romano”, fonte di ispirazioni quotidiane, luce salvifica nelle oscurità dell’esistenza. Sì, Felice aveva deciso la sua strada dopo il calcio giocato, la sua laurea in giurisprudenza, la sua missione di avvocato, sempre con la “pietas” latina che si estrinsecava nell’aiutare gli altri per dare un senso ai giorni che si susseguono. Non è facile per un ex giocatore rimettersi nella carreggiata dell’esistenza, provandosi e provando cosa si è capaci di fare. Felice, agonista puro, non voleva mai perdere, figuriamoci con sé stesso. “Vita ars militaris est”, dicevano i nostri antenati, e avevano ragione. Felice prendeva con interesse e stimolo ogni singola sfida che la vita gli poneva di fronte. Prendiamo gli inizi della sua folgorante carriera da portiere. Si parte sempre dal basso per arrivare in alto e Felice ha le idee chiarissime sin da subito. Vuole diventare portiere, vuole diventare un numero uno, vuole emergere. La sua forza caratteriale è insita nel suo animo, è un DNA da campione che si riconosce subito e che non dà adito a dubbi. Felice diventerà un grande portiere e lo sanno tutti quelli che ammirano la sua crescita sportiva ed umana. Dai tempi campagnoli (una campagna che ancora dava i suoi frutti ad un’Italia in perenne evoluzione, ma fondamentalmente contadina) del Lecco e del Novara, ai tempi metropolitani (una città come Roma che stava dando i primi segnali di fermenti sociali e politici che avrebbero sconquassato ogni limite ragionevole) della Lazio. Amore a prima vista come quello con una donna mai conosciuta, ma che si ha la sensazione di conoscere da sempre. Si prende la Lazio nel suo momento più bello, convergenza di passioni furibonde e di calcio di livello sublime, miscela meravigliosa del bello della vita e dello sport. E lui, il longobardo romano Felice, è nel suo attimo fuggente, nel suo orgasmo con la vittoria. Matura sempre più come portiere, diventa un muro invalicabile, pochissimi i gol subiti, lo scudetto è roba di tempo, pochissimo tempo. Cos’è il tempo? Nessuno lo sa dire, ma Felice Pulici quel 12 maggio 1974, in quel pomeriggio caldo, affollato da 85.000 tifosi increduli e sognanti, ha capito cos’era il Tempo. Il Tempo è una sensazione personale che lo fa correre dallo scudetto appena vinto alla culla di suo figlio Gabriele, appena nato con il tricolore sul petto. Storia incredibile certo, ma storia vera, quasi una leggenda di virgiliana memoria. Ecco sì, Felice sembra Enea, l’eroe della “pietas” latina, il capostipite del Lazio, a questo punto giusto scrivere “capostipite della Lazio”… Ma Pulici non si ferma a quello scudetto. “Vita ars militaris est” si diceva. Arrivano i momenti bui, le tragedie, le morti, ma Felice sa perfettamente che la vita è anche morte, in un connubio inestricabile. Felice combatte, Felice aiuta, Felice piange e quel suo memorabile derby del 1976 in cui parò anche l’impossibile esterna una confessione da brividi, “Tommaso stava con me, anche se Tommaso stava per lasciarci”. Tommaso aveva ricevuto la sua ultima gioia dal “suo” numero uno, dal suo Felice che così tanto aveva amato. Ma la vita è un fiume rigoglioso che continua il suo corso verso il mare e Felice non può fermarsi, non è nel suo carattere, forte e intriso di valori del “civis romanus sum”. La morte di Cecco è un altro terribile colpo per tutti, figuriamoci per Felice suo amico e conterraneo, ma si continua e si deve andare avanti. Arriva Vinicio e Felice capisce subito che bisogna girare pagina perché gli viene preferito il giovane Garella. Va a trovare lidi che recepiscano i suoi bagliori di bravura calcistica. Monza lo richiama a casa e lo accoglie a braccia aperte e lui ripaga con la consueta dedizione cotanto rispetto. Dopo un grande campionato in maglia brianzola, il vulcanico presidente Costantino Rozzi se ne innamora e lo riporta nella massima serie con la maglia dell’Ascoli. Tre splendidi campionati in terra marchigiana, ricchi di soddisfazioni sportive e personali, ma la Lazio e la gente laziale sono amori che non si dimenticano. Il desiderio di chiudere la carriera con la maglia numero 1 sulle spalle è sempre un chiodo fisso, fino a quando nell’estate del 1981 il grande Antonio Sbardella lo richiama alla Lazio per coprire il buco lasciato dal perenne infortunato Moscatelli e dall’acerbo Marigo. Le prestazioni di Felice e della squadra inizialmente sono ottime, poi si rompe qualcosa e qualcosa viene a mancare, anche a livello motivazionale. Pulici pensa di smettere e lo comunica alla moglie Paola al telefono di un autogrill di ritorno dalla gara persa a Lecce il 14 marzo 1982. Felice chiude anticipatamente la stagione e con il calcio giocato ma si organizza il futuro… arriva Giorgione ed è un ciclone che gli spariglia nuovamente le carte in tavole. Giorgio Chinaglia e Felice Pulici di nuovo insieme, stavolta non sul campo, ma dietro sugli scranni di una società che voleva stupire con effetti speciali, ma che è rimasta ferma ai soli sogni di gloria… Da Chinaglia a Cragnotti, passando per la laurea in giurisprudenza, il passo è lunghissimo ma rappresenta una continuità di vita che solo Felice poteva cavalcare. La sua carriera dirigenziale esalta le doti difensive dell’avvocato Felice, alle prese con processi e altre situazioni scabrose da cui la Lazio ne usciva sempre col minimo danno grazie all’abnegazione e alla competenza del numero uno. Anche nel campo del settore giovanile o dei rapporti con i tifosi Felice ha dato il meglio di sé stesso, rappresentando un punto di riferimento imprescindibile. Giusto il premio del suo secondo scudetto, quello del 2000, un riconoscimento ad una carriera che ormai stava entrando nella leggenda. Non è da tutti svolgere così tanti ruoli, e svolgerli bene, e vincere così tanto. La vita premia i meritevoli e Felice ha raccolto i frutti del suo lavoro quasi come si raccolgono le mele mature da un albero, ma quanta fatica Felice… Eppure malgrado fosse un uomo realizzato, non si poteva fermare, doveva trovare altre sfide, altri stimoli e soprattutto dare a sé stesso la conferma che la vita non è solo materialità ma anche e forse soprattutto spiritualità. Ed ecco l’avvicinarsi a Sant’Agostino, la sua stella polare, ecco, da fervente cattolico, mettersi a disposizione dei più bisognosi. Felice ha lavorato 10 anni con la Federazione Sport Sordi Italia (FSSI), un mondo ai più sconosciuto che Felice ha portato alla ribalta con la consueta umiltà e forza, doti che lo hanno accompagnato per tutta una vita. Felice ha frequentato un corso per imparare il linguaggio dei non udenti: la lingua dei segni. E’ andato a lungo a scuola “un linguaggio unico (spiegava Pulici), straordinario anche perché è internazionale, con costruzioni logiche simile all’inglese, come ad esempio il verbo messo alla fine del periodo”. Una missione che Pulici sentiva dentro da tempo, un cerchio che si è chiuso, una storia di estrema sensibilità iniziata a Sovico, il suo paese in Brianza, quando lui era giovanissimo. Lo accompagnerà negli ultimi anni anche una malattia, che poi lo porterà prematuramente alla morte, ma la sua “ars militaris” non cedeva nemmeno di fronte ad essa. Pulici non è solo una storia di Lazio, anche se è la personificazione della Lazio stessa: è una storia di un uomo che ha dato tanto, che ha vissuto pienamente la sua storia concessagli dal destino. Il silenzio di chi ha vinto. Come Felice. di Emiliano Foglia
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