14 gennaio 2002. La Lazio di Maestrelli o la Lazio di Chinaglia, oppure la Lazio di Lenzini? Ognuno di noi liberamente può associare a questi personaggi storici, la leggenda dello scudetto targato 1973/74. E’ opportuno e doveroso ricordare un’altra figura storica di quel miracolo sportivo che spesso viene dimenticata, ovvero Antonio Sbardella, direttore generale di quell’epoca, che attraverso le sue mosse azzeccate di calciomercato aveva costruito quella “meravigliosa creatura”. Antonio Sbardella, detto anche “don Antonio”, per la sua abilità ed astuzia nel muoversi attraverso le complesse trattative di acquisti e cessioni, nacque a Palestrina il 17 ottobre 1925. Gli studi ed il calcio erano la sua passione. Iniziava a giocare nelle giovanili della Lazio come portiere, ma presto era costretto ad interrompere l’attività agonistica a causa di un grave infortunio. Tornava a studiare questa volta il regolamento del giuoco del calcio e nel 1954 e decideva di diventare arbitro. Riuscì ad essere designato come arbitro internazionale per il Campionato del Mondo giocato in Messico, nel 1970, al culmine di una brillante carriera. Dopo aver arbitrato la delicata partita Perù-Bulgaria, risultata tra i papabili candidati a dirigere la finalissima, fu la vittoria dell’Italia nella semifinale con la Germania, a negargli quel traguardo, relegandolo alla finale per il 3° e 4° posto. Mancata la gratificazione di arbitrare la finalissima, Sbardella veniva comunque premiato con il “fischietto d’oro”, come miglior arbitro di quel Mondiale. In quel periodo come fu per Bartali e Coppi, la sua popolarità era divisa con un altro arbitro del calibro e spessore di Concetto Lo Bello; due elementi di grande carisma e personalità. Chiudeva la sua ventennale carriera di arbitro dopo aver diretto 167 partite in Serie A e 70 partite di gare internazionali, numeri che hanno un valore ancora maggiore se si considera che annualmente nei tornei nazionali ed internazionali si giocavano meno partite. Dismessi i panni da arbitro iniziava la carriera dirigenziale. A portarlo alla Lazio ci pensò il Presidentissimo Umberto Lenzini il 27 maggio 1971, proprio nel giorno della retrocessione nella serie cadetta. Il primo atto di Sbardella fu quello di affidare a Maestrelli la ricostruzione della Lazio. Se da arbitro l’esperienza lo portò essere più diplomatico pur con fatica, da direttore generale fece deferire Chinaglia, quando questi chiese di essere ceduto. Con Lenzini ci furono scontri di personalità perché Sbardella rimproverava al suo presidente di essere troppo accondiscendente con la squadra. A Terni, nel 1971, Sbardella voleva far deferire tutta la squadra che non intendeva partecipare al ritiro in assenza dei premi da riscuotere per la qualificazione ottenuta in Coppa Italia. Di lì in poi, avrebbe costruito una Lazio coesa come poche, nella sua storia, fatta di talenti difficilmente riscontrabili, in altre situazioni e altri periodi. Cedeva Giuseppe Massa all’Inter per 200 milioni di lire ed il cartellino di Frustalupi, acquistava Re Cecconi, Pulici e Garlaschelli, subendo una dura contestazione, ma alla fine aveva ragione lui. Al centro sportivo di “Tor di Quinto” prometteva ai tifosi di portare la Lazio tra le grandi del calcio italiano. Non tradirà mai le sue promesse. Promozione in Serie A il primo anno, scudetto sfumato al l’ultima giornata nella seconda stagione e tricolore il terzo anno. E l’uomo più importante di questo ciclo vincente è proprio Tommaso Maestrelli, l’allenatore che “don Antonio” aveva scelto contro tutto e contro tutti. Sbardella negli anni a seguire aveva alternato la carriera di dirigente calcistico a quella di dirigente federale. Si è spento tra l’affetto della famiglia e della sua gente laziale, il giorno 14 gennaio 2002. La grande Curva Nord prima della partita Lazio-Milan di Coppa Italia gli aveva dedicato lo striscione: “Antonio lassù nel cielo biancoazzurro brilla la tua stella”. Le sua anima riposa nell’Alto Lazio presso localita’ di Preta, piccola frazione di Amatrice (RI), mentre sul Monte Gorzano all’altezza di 2458 metri è stato posato un omaggio a “don Antonio”, picco montano che amava moltissimo scalare, mirando da vicino il volo dell’aquila.
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